Le recensioni di Emilio Campanella: Febbraio 2003


GENTE DI PLASTICA

Il nuovo spettacolo di Pippo Delbono, successivo capitolo di un lavoro che lascia il segno, in cui il regista, demiurgico come sempre, ma in maniera diversa, ci appare all'inizio come un ritratto fiammingo.

Visto all'Elfo di Milano verso la fine della lunga serie di repliche e prima di una tourne'e che tocchera' tutta l'Italia e non solo, ve lo consiglio caldamente se amate il suo teatro, o se non avete mai visto nulla di suo.

Lo spettacolo che ha l'ideale durata di 100' senza inutili intervalli ed una struttura bipartita apparentemente staccata, e se la costruzione complessiva e' quella abituale a "pezzi chiusi" che si susseguono, qui piu' che in precedenza, l'architettura drammaturgica ha delle sottili ed invisibili connessioni fra episodio ed episodio. Nella prima parte assistiamo ad un 'ideale' ritratto di famiglia, famigliola, famigliaccia, da pubblicita' degli anni sessanta dove tutto e' idilliaco (marito e moglie avranno un cuore di rose che scendera' ad incorniciarli come in un quadro di Pierre et Gilles), ma, gratta gratta, e neanche troppo profondamente, vengono fuori le magagne. Avevo visto qualche cosa di simile lo scorso anno alla Biennale, e dato che non si tratta di una citazione, poiche' non e' proprio il caso, ritengo sia la trattazione della stessa tematica, ma motivata, in questo caso, e coerentemente inserita nello spettacolo. Come dicevo su tutto cio' c'e' la voce onnipresente di PIPPO dalla sua consolle da DJ, dietro il vetro di una cabina di regia; talvolta "scende" e fa lo "zio" della famigliola, o dopo, con il microfono e solo in scena pronuncia le frasi tragiche e strazianti di Sarah Kane cui lo spettacolo e' dedicato e che fanno da struttura portante alla seconda parte in cui la GENTE DI PLASTICA irrompe in maniera "disordinata" e minacciosa mentre nel frattempo una bambinaccia sta seduta su di una lavatrice, con due scatole di detersivo in polvere dentro il reggiseno ed un flacone di quello liquido abbracciato (un po' DUE O TRE COSE CHE SO DI LEI di Godard rivisitato, ma anche Andy Warhol), e poi un episodio di "peluches e sconcezze" in cui una mamma magrittiana fa giocare la sua creatura in carozzina mentre un distinto signore fa la cacca in un angolo; un uomo con palloncini in testa propone un te' scendendo in sala (l'intervallo di 1980 della Bausch in un omaggio stravolto e caustico); una riunione di fantasmi con maschere inquietanti, abiti eleganti di varie epoche, mostri mascherati anche con teste di animali ci guardano pericolosamente mentre Gianluca Ballare' nudo con una maschera da maialetto sul volto compie una danza liberatoria orgiastico-dionisiaca; una donna arriva, si siede, si toglie un turbante che copre un cranio calvo e la maschera che nascondeva un volto in decomposizione (ho pensato a Shining) e comincia a provarsi delle parucche cercando di ritrovare se stessa.

Ancora, Gianluca, seduto in una luce verde come di prato gioca e coinvolge il pubblico sino all'arrivo di una mamma strafica anni cinquanta in bikini elegantissimo che nonostante le vessazione della pistola ad acqua del 'figlio' compira' una vestizione da femme fatale sino ad un cappello che neanche al Derby di Ascot!!! Il tutto inframmezzato da corse e rincorse al bambino dispettoso, su tacchi stratosferici... poi usciranno per mano... una scena che mi ha molto ricordato la mia infanzia di bimbo con una madre sempre molto elegante e dalla femminilita' prorompente... discorso lungo, ... un'altra volta!

In sottofinale, prima delle ripresa ciclica del ritratto di famiglia, Bobo' che fuma una sigaretta con piu' charme di un seduttore degli anni trenta.

Discorso a parte merita Beppe Robledo e la sua galleria di signore tremende, dalla soubrette sudamericana al ritratto feroce di una stilista biondo platino con capelli lunghissimi fra party e sfilate di biancheria sexy maschile, ad una "cattiva madre" di razza, espressionista, mafiosa, brechtiana, surrealista etc....

A conclusione, le parole della Kane dette con dolore da Pippo nel suo microfono sino ad uscire di scena.

Applausi prolungati, ma anche un po' intimiditi ad uno spettacolo della ricchezza che spaventa. Spaventa per l'impegno morale, per la qualita' scenica, le luci ed il suono ineccepibili, l'attenta scelta musicale, lo spiazzante contrasto fra grottesco e tragico e la grande cultura teatrale che c'e' dentro e dietro.

Ancora una volta GRAZIE PIPPO!

emilio campanella


DOLLS DI TAKESHI KITANO

Rivisto in occasione dell'uscita nazionale, mi si conferma un film di rara falsita' (ovvero, in cui tutto sembra assolutamente falso, forse, a dispetto dell'onesta'-?-degli intenti) in cui tutto e' artefatto ed ogni riferimento estetico/letterario vale per se stesso, come in una ricetta troppo ricca e dalle dosi sbagliate, non "lega" con gli altri ingredienti. Cio' vada per il dichiarato parallelo con le 'storie' delle straordinarie marionette del Bunraku (sono le scene migliori del film, e vorrei vedere!!!), ne' quello maggiormente mediato, ma trasparente con Tanizaki, ancor meno con certe vicende di Chikamatsu Monzaemon, qui preso proprio a modello (mi viene in mente Mishima ed i suoi nô moderni, ma e' meglio lasciar perdere!), e ricordare Misoguchi e' amarissimo rimpianto. Cio' che resta, e non e' poco, anzi, troppo, e' l'estrema cura formale decisamente fine a se stessa tanto fotografica (ad un certo punto si e' stufi del rutilare delle foglie rosse di acero) o dei colori autunnali dove l'estetica dell'Ukyo-e e' ribadita sino alla noia. Ci sono alcuni episodî piu' riusciti, pochi, come quello dell'incubo (?) di una delle protagoniste che sembra un kyôgen, e piu' o meno tutto il ritratto dello yakuza (se si toglie il ricordo un po' troppo repentino e 'telefonato' della ragazza) ch'e' nelle corde dell'autore.

Le vicende sono tre e si intrecciano: la prima, che fa da cornice, e' quella di Sawako e Matsumoto, promessi sposi dei quali lui preferisce un matrimonio d'interesse (qui LA CERIMONIA di Oshima e' dietro l'angolo) facendola impazzire, salvo poi seguirla nella sua follia e divenire, nella definizione popolare, la coppia dei vagabondi legati, dovuta alla lunga corda rossa che li tiene uniti.

La seconda e' quella di una ragazza che porta, ogni sabato nel parco, il pranzo ad un operaio di cui e' innamorata, e poi lo aspetta inutilmente per trent'anni, ed ovviamente non lo riconoscera' vedendolo invecchiato, ben vestito come aveva promesso, avendo scelto la strada della malavita. Una rockstar perde un occhio in un incidente stradale ed un fan si accieca per lei rimanendo successivamente vittima di un incidente mortale. La sua ferita, come una stella, avra' una dissolvenza incrociata con una delle solite foglie (per dare un'idea dell'eccesso di formalismo). Tutti questi personaggi sono soli: Sawako e Matsumoto che non riescono piu' a comunicare... ed anche prima, via! I due vecchi fanno una vita di solitudine per scelta e la rockstar lo e' piu' di tutti, e prima con la sua vita fittizia, e dopo con la sua decisione di non mostrarsi a causa della menomazione. Tutti soffrono inutilmente: le loro vicende non ci toccano, non ci riguardano, restano come al di la' del cristallo dell'acquario, ma cio' non sembra voluto, tutto e' tuffato in una salsa estetizzante troppo ricca. E quei costumi insopportabili! Due vagabondi vestiti di ciaffi firmati mi sembrano veramente il colmo!

emilio campanella