Le recensioni di Emilio Campanella

Aprile 2007


TEATRO SICILIANO - IL FAUST DI NEKROSIUS - QUESTO BUIO FEROCE - ATTENTATI ALLA VITA DI LEI


TEATRO SICILIANO all'Aurora di Marghera

Bar di Spiro Scimone, il 10 marzo

Mishelle di S.Oliva di Emma Dante, il 17 marzo

Sono due poveretti, Nino e Petru, si rifugiano nel retro di un bar, li vediamo in quattro frammenti delle lore serate di fuga dalla realta', si direbbe, piuttosto scomoda. Uno lavora in quel bar, l'altro cerca di tirare avanti giocando d'azzardo, ma perdendo irrimediabilmente. Ogni tanto salgono su di una scala aperta e spiano il locale accanto attraverso una finestra-presa d'aria nell'alto della parete. Si parla di perdite gravi, sempre piu' gravi, ma il testo di Sciamone (premiato nel '97 col premio Ubu come nuovo autore, mentre a Francesco Sframeli, quello come nuovo attore) e' secco e senza sbavature, ogni frase vuol dire sempre anche qualche cosa d'altro; il testo e' ellittico, la situazione, senza uscite. Ci sono gioielli nascosti in posti compromettenti, ed anche questo significa altro. La recitazione e' curatissima da parte di entrambi, la regia risente un po' di Cecchi. Il testo evoca grandi autori, nella sua originalita', i personaggi sono comici, grotteschi marginali. Qualche anno dopo scrivera' Nunzio e da quella pie'ce trarra' Due amici premiato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2002.

Quanto si alzano le luci li vedremo fermi davanti alle porte delle rispettive stampe, inquadrate da tende di velluto, gialle le une, rosse le altre, come seduti davanti alla porta di un basso, come puttane in attesa di clienti, come uomini di teatro davanti ad un personale sipario aperto. L'uno, il figlio (il talentuoso debuttante Francesco Guida) in cerca di un amore che l'altro, il padre (l'ottimo Giorgio Li Bassi) da dieci anni gli rifiuta assieme agli sguardi. Sono entrambi tremendi. Abbandonati dalla madre-moglie ballerina dell'Olympia di Parigi, stripteaseuse, entraineuse, pute, che non riescono a scordare.

Il vecchio, passivo, in attesa, il giovane, che si sbatte e batte travestito per mantenerlo, gli lava, gli stira, gli cucina con grandissimo amore ed odio profondo di rifiutato. Somiglia un po' alla storia di noi finocchi tenuti a distanza dai padri, noi che non siamo mai stati come loro ci avrebbero voluti, addolorati, trascurati, innamorati senza speranza, in attesa di una carezza che non arrivera' mai. E' una "piccola" discesa all'inferno, un ulteriore tassello del tremendo mosaico delle famiglie che Emma Dante, pazientemente compone, ormai da anni, e qui, come sempre, con un testo denso, a tratti esplosivo come esilarante. Emma Dante che riesce a far fare qualunque cosa ai suoi attori, li fa danzare "scompostamente" entrambi. Il giovane, una danza magica sull'altare dell'amore per il padre evocando la madre fuggita, l'altro, una danza deduttiva e sporcacciona, non meno traviato, lui, del figlio, come un S.Gerolamo perso nell'ebbrezza di Noe'.

emilio campanella


IL FAUST DI NEKROSIUS

Ho visto il Faust di Nekrosius al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, ospite contemporaneamente anche della stagione del Centro Servizi e Spettacoli di Udine , il 16 marzo scorso.

Si ritrova, in questo lavoro, l'inconfondibile cifra stilistica di un regista sempre alla ricerca, e che, nei suoi spettacoli lascia sempre l'impressione affascinante del non finito, della sperimentazione, dello scavare continuo al fondo di se stesso attraverso il testo scelto.

In tre ore e mezzo abbondanti affronta, di petto, da par suo, il primo Faust goethiano, che si inizia con il prologo in cielo in cui il buon Dio (un povero Dio, come son poveri, qui, angeli e diavoli) fa girare la sua macchina che sembra piu' un'inutile macina di cose consunte; poi e' lo studio (I) con Faust (il sempre eccezionale Vladas Bagdonas) che compie riti magici, brancola nello spazio, mulina le braccia, si agita, cerca, si tormenta, si arrovella, sale su di una scomodissima seggiola ingombra di libri, che sembra chiudersi su se stessa da un momento all'altro, vi si siede, soffre, si lacera, si macera, tutto per un lungo momento gestuale (si sa quanto la fisicita' e la danza siano determinanti nelle messe in scena del regista lituano) e da parte di un attore che appena entra in scena, anche senza far nulla (sic) che catalizza l'attenzione. Poi giunge Wagner (Povilas Budrys che e' anche Dio), in bicicletta, dormendo su un cuscino appoggiato al manubrio, onirico, sonnambulo, dubbioso, dialettico, fino alla tentazione del veleno, evocazione, immagine plurima, resa con un portalampada: spirito, coppa, luce inquietante e provocatoria, ma gli spiriti vanno educati, e Faust lo fa spegnendolo, basta svitare la lampadina, per poi riavvitarla e riprendere il dialogo: ancora una volta materiali poverissimi, quotidiani, assumono valenze di altissima universalita'. Mefistofele (Salvijus Trepulis) ed il "cane" viene messo in una vasca da bagno rivestita di vimini (peraltro, quando si raccoglie un cane abbandonato gli si fa il bagno e lo si porta dal veterinario, ma Faust e' ben di piu' e studiando dissemina il palcoscenico di libri aperti sfogliati dal vento in cui il "buon diavolo" rimane catturato, lui, lo spirito che nega, che irride, molto piu' serio nella sua ingannevole realta' di quell'egoista, disonesto, egocentrico dottore, ma anche molto peggio e molto meglio, cosi' disilluso (e sino alla fine!). Il dramma di Faust continua, e siamo nuovamente nello studio (II). I dubbi laceranti, le poche certezze, gli errori di una vita per la ricerca, forse, sprecata, questi i temi prediletti del regista, tanto che dopo circa tre ore di spettacolo non mi aspettavo quasi piu' di vedere Margherita, e non mi sarebbe spiaciuto che il lavoro si fermasse ai temi ampiamente approfonditi. Invece, la terza parte e' incentrata sul "dramma di Margherita" che perde la testa per un vecchio (fascinosissimo) Faust e viene regolarmente abbandonata. C'e', purtroppo anche un Valentino abbozzato, la cui morte, per non sappia risulta un po' vaga. Tanto valeva sorvolare. C'e' anche piu' o meno un accenno al sabba dove la bellissima e bravissima Elzbieta Latenaite ha un' apparizione struggente, e poi si avvia al carcere con l'intenso monologo finale, l'elenco dei morti, il disperato macerarsi di povera condannata che, come sappiamo, preferira' lasciarsi uccidere che seguire i suoi demoniaci "amici". Sembra che Nekrosius abbia preferito, nettamente, privilegiare, e sono d'accordissimo, la parte esistenziale del "dramma di Faust", ma che poi abbia deciso di completare "la storia" anche se non indispensabile, ed in un modo, debbo dire, che da' un'impressione un po' didascalica, per quanto, ci siano momenti, come sempre, straordinarî, come il moltiplicarsi degli arcolai durante il canto di Gretchen, quasi una filanda, o gli intensi abbracci dei due amanti, o ancora Faust che pulisce, a lei, le mani, con un fazzoletto, come si fa con i bambini; lui che e' sempre sudatissimo-emozionatissimo e l'impressione che qui, quasi, ognuno sia come un po' il golem di qualcunaltro. Non ho amato in generale la scenografia, ma, molto, le pesanti e rumorose seggiole di ferro, come detto, sempre un po' storte.

Belli i costumi eleganti e stilizzati (Nadezda Gultiajeva). E', ovviamente, uno spettacolo che consiglio a chi potra' vederlo a Milano, allo Strehler, dal 16 al 20 maggio prossimi, ma del quale spero qualche rielaborazione e ripensamento poiche' qualche limata non guasterebbe, se poi, ci regalasse anche un II Faust, perche' no?

emilio campanella


QUESTO BUIO FEROCE

Quando vado a vedere uno spettacolo di Pippo Delbono, parto ormai, con grandi aspettative, e debbo dire che non rimango mai deluso, questa volta poi, Questo buio feroce, visto all'Arena del Sole di Bologna il 25 febbraio, mi ha addirittura entusiasmato, no dico piu' del mitico Barboni, ma ben poco meno. C'e' sempre maggiore maturita' in questo regista che, ogni volta strappa brani della sua coscienza per donarceli, come sempre, partendo da un "piccolo" spunto autobiografico innestato / incastrato con testi incontrati durante i suoi viaggi interiori e/o reali. C'e' una sempre maggiore accuratezza formale, pur negli estremi rigore e semplicita': una scena costituita da due pareti laterali ed una di fondo, questa, che di tanto in tanto si apre lasciando giusto lo spazio per passare, di un colore grigio chiarissimo (Claude Santerre); le luci precise e suggestive (Robert John Resteghini) ed i costumi curati per i quali non so chi complimentare, poiche' l'esiguo programma di sala non porta l'indicazione.

Lo stile e' quello inconfondibile, per episodî, molto spesso contrastanti in cui le immagini si succedono con ritmo fluido, continuo ed anche incalzante, con l'abituale patchwork musicale abile, colto ed accattivante.

Si inizia con l'immagine di un uomo molto alto, molto magro, sdraiato (Nelson Lariccia), con una maschera sciamanica, poco dopo una donna senza gambe, abito rosso e parrucca fiammeggiante, arriva su di una sedia a rotelle; una figura bianca apre e chiude le pareti, ci sono infermieri che potrebbero anche essere abitanti di una citta' atomizzata; delle seggiole bianche, alcune persone arrivano ad occuparle, e siamo in una sala d'attesa ospedaliera, numeri vengono enunciati come grida di dolore; sacche di sangue vengono lentamente calate, poi, finalmente arriva Pippo. E la sua voce, gia' udita, ritorna a pronunciare frasi drammatiche, frammenti di narrazione, versi; dopo, a piedi nudi, bianco vestito, danza. Si avanza Pepe Robledo, seminudo, bendato, viene legato ai polsi ed alle caviglie, poi, sollevato, tirato, posato, risollevato, tirato nuovamente, poi puo' andarsene Ritorna Nelson e canta My way con bel timbro e stoffa d'entertainer, sopraggiunge una donna bellissima, elegantissima. Escono di scena sottobraccio, con grande contrasto poiche' lei e' in lungo, e lui in mutande, come nella prima scena. C'e' un sapore che fa pensare a Pina Bausch, e ritornera', questa sensazione, ma proprio, come modo di far teatro, ma ovviamente, con la forte cifra di Delbono. Arriva una donna vestita in maniera vistosa, si sdraia, prende una manciata di pasticche, ci beve sopra, sembra addormentarsi, poco dopo c'e' l'apparizione seminfernale di un locale "equivoco" per tutti i sessi, un infernetto in penombra, come nel localino sottocasa, forse l'incubo continua con un presentatore spaventoso (elegante, cosa credete? anche troppo!) che narra, suadente, orrori, poi se ne va. Successivamente, e' la volta di una serie di re'venants vagamente settecenteschi, ma anche ottocenteschi, come in una sfilata che strizza l'occhio anche a Fellini, per chiudere con Gianluca Ballare' che fa pensare a Donghi, seguono clowneries minimali con Bobo' che diventano assolutamente picassiane. En travesti, si avanza una bellona che propone una rubrica che cuori -ed altro!- solitarî; segue la storia di Cenerentola accennata abilmente, ed in maniera anche divertente, quanto basta, ma le nozze preludono a quello che sembra proprio un funerale, ma poi arriva Pippo: abbiamo l'impressione che celebri il suo, mentre il palcoscenico si affolla di personaggi funerei, dal trucco cereo, in una scena decisamente espressionista ch'e' un po' come la visione di un morente.

Da ultimo, Delbono si spoglia, con boxer neri, come i danzatori trendy. In maniera piu' sognante, riprende le legazione della sua danza, ancora, ancora, ed ancora, mentre i lugubri personaggi fanno un girotondo (massi', certo, una danza macabra, che altro!) e gia' inizia il lungo affettuoso applauso del pubblico, per 90' attentissimo!

Si direbbe che la cura formale dello spettacolo valorizzi lo stile crudo del regista ed ideatore (come sempre) dello spettacolo, facendo risaltare con particolare forza.

Si tratta di una coproduzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Festival delle Colline Torinesi, Thèâtre du Rond Point, Paris, TNT Thèâtre National de Toulouse Midi-Pyréneés, Maison de la Culture d'Amiens, Le Marlan Scène Nationale de Marseille, le Fanal Scène Nationale de Saint Nazaire, Thèâtre de la Place, Liège.

emilio campanella


ATTENTATI ALLA VITA DI LEI

Un impianto scenico un po' alla Piscator, costituito da un sistema di scale e praticabili bianchi simmetrico, ed un elaborato parco luci dalle differenti possibilita'. Cosi' si presenta la scena fissa, nell'allestimento della COMPAGNIA ACCADEMIA DEGLI ARTEFATTI, per la regia di Fabrizio Arcui, di Attempts on her life di Martin Crimp, testo mosaico attorno ad una misteriosa figura di donna continuamente proposta ed occultata, ribadita e negato, in un tentativo di racconto che ritorna, si riavvolge, viene enunciato, diviso in 17 parti, di varia durata, anche brevissima, dai 30 ai due minuti!

Merito della regia e del tipo di recitazione che varia da un episodio all'altro, il mantenere vivo l'interesse mescolando atmosfere e stili. Sdoppiando e triplicando le presenze dei narratori, mai completamente calati nei personaggi, ma neppure, mai al di fuori di essi totalmente. E' stato ospite del Teatro delle Fondamenta Nuove, dal 10 al 11 febbraio.

Come ho detto sopra, l'opera si divide in 17 microdrammi proposti, in ordine non ordinatamente successivo ed agiti dagli attori in maniera, talvolta, straniata, talaltra, movimentata (spesso) da tic e minimali accenni di tormentoni che ne fanno una cifra interpretativa anche molto esilarante, in alcuni casi, dissacrando, e ferocemente ironizzando, e proprio cosi' mettendo in risalto situazioni particolarmente drammatiche, quando non decisamente tragiche.

Una segretaria ci assorda con messaggi che nessuno ha ascoltato, a parte noi, pare. Si parla in terza persona di Anna, Anouska, ma anche Anya, si racconta di lei, si cerca di raccontare, si fatica a raccontare, a fissare la personalita' sfuggente e le situazioni.

In maniera anodina, alla presenza di un cavallo, si spiegano atrocita' di guerra. Le scene spiazzano, dal concerto rock alla lezione di ginnastica. C'e' un dialogo nonsense con un sub, e poi, ormai di lei si parla ma, si sa. Poi e' un'artista concettuale che propone istallazioni estreme; c'e' anche un angelo suggeritore, si parla di alberghi equivoci, ma forse no, di oggetti che trasmigrano da una situazione, ma ancora, la difficolta' del racconto inframmezzato da canzoni confidenziali, l'una e l'altra cosa continuamente interrotte in un crescendo caotico ed esilarante, quasi Bausch.

Da ultimo un'inchiesta con ospite ed interprete multilingue, sino ad un salotto con salmone (grandezza umana, e tre pettegoli, tema: Anna!

Tutto nella durata di circa 200' aritmicamente appassionanti, tempi perfetti, recitazione intrigante, regia inventiva e precisa.

emilio campanella



ORSI ITALIANI