ORSI ITALIANI


Le recensioni di Emilio Campanella

Gennaio - Febbraio 2017


TRIO IN BIANCO MAGGIORE - PREZIOSITA' QUATTROCENTESCHE - UN BALLO IN MASCHERA - PRIMA DELL'ALFABETO - IL NUOVO MUSEO CIVICO DI BELLUNO - "GLAMOUR" FORLIVESE - SINIBALDO SCORZA - MOSTRICIATTOLI ED ALTRO - SUGGESTIONI AMERICANE SUL CANAL GRANDE
La mostra di Scianna e Burri si e' chiusa l'8 Gennaio, ed il 15, apre al pubblico la nuova, importante, sentita mostra fotografica della Casa dei Tre Oci di Venezia.

Si avra' tempo per visitarla, sino al 2 Aprile prossimo. Artico, ultima frontiera, il titolo. Un piano per ogni fotografo: Ragnar Axelsson ( patriarca dei fotografi del Grande Nord) a piano terra, Paolo Solari Bozzi (dopo le precedenti esperienze professionali legali ed amministrative) al primo, Carsten Egevang (biologo) al secondo.

Tre modi di guardare, studiare, osservare sul campo, ovviamente, i cambiamenti climatici sconvolgenti, la vita delle persone, quello degli animali ed il rapporto fra loro.

Soprattutto la profonda trasformazione delle abitudini millenarie degli Inuit, cosi' lontani, ormai dagli Esquimesi di Flaherty e vittime di problemi come la disoccupazione e l'alcoolismo.

La presentazione e' stata sabato 14, con una tempestivita' ambientale che sembrava voluta, infatti la sera prima, una soffice nevicata aveva imbiancato elegantemente e senza eccessi la citta', per cui si lasciava la neve che scricchiolava sotto le scarpe, per ritrovarla nelle immagini a dir poco suggestive, dei tre autori.

Presentazione svoltasi in una delle sale storiche del palazzo, ed a cui sono intervenuti: il direttore artistico della Casa dei Tre Oci: Denis Curti, anche curatore della mostra, Il Presidente della Fondazione di Venezia, che tiene sotto la propria ala questo centro fotografico veneziano, due dei fotografi: Paolo Solari Bozzi e Carsten Egevang, siccome Ragnar Axelsson era ancora bloccato a Berlino, a causa delle cattive condizioni meteorologiche.

Nato quasi per caso, il progetto dell'esposizione, avvicina tre personalita' molto differenti che concorrono a fare un medesimo discorso atto a sensibilizzare nei confronti di un immane danno ambientale che tutti cominciamo a pagare pesantemente, e che in Groenlandia risulta evidentissimo, motivo per cui è così importante avere testimonianze fotografiche dell'Artico, oggi.

La vita di queste popolazioni di pochi numeri, di pochi villaggi è vieppiu sconvolta, tanto dal progresso, come e soprattutto dal progresso tecnologico con cui gli autoctoni si confrontano e che subiscono.

Le foto che vediamo sono di persone, di animali, di paesaggi, di spazi, di grandi evidenti silenzi, di vita quotidiana spicciola, di vita dura per tutti. Immagini di grande bellezza e forza, nonostante la drammaticita' delle situazioni testimoniate.

Con ampio respiro, il tema e' svolto da tre punti di vista che convergono verso un tentativo di seria ed allarmata informazione del pubblico, ma e' da temere che vedra' questa esposizione, soprattutto chi e' gia' sensibile nei confronti del problema.

emilio campanella

Alle Gallerie dell'Accademia di Venezia, sino al 17 Aprile prossimo, sara' possibile visitare una coltissima piccola mostra, nelle sale dei restaurati spazi delle Grandi Gallerie, recentemente aperti al pubblico e che accolsero, sino a pochi mesi fa, l'importante esposizione intorno ad Aldo Manuzio.

Questa e' intima e sono esposte "solo" quattordici opere. Il titolo è  Il Paradiso riconquistato, trame d'oro e colori nella pittura di Michele Giambono.

Motivo della manifestazione, il restauro dell' Incoronazione della Vergine e Santi del Paradiso (Gallerie dell'Accademia), realizzato con aiuti, fra il 1447 ed il 1448 su commissione per la Chiesa di S.Agnese, e prendendo a modello l'importante pala dallo stesso titolo, dipinta nel 1444 da Giovanni d'Alemagna ed Antonio Vivarini, per la Chiesa di S. Pantalon, sempre a Venezia, dove e' ancora conservata.

E' da dire subito che le due opere sono affiancate in modo da riscontrarne le somiglianze, le differenze, gli stili personali degli artisti, che le contraddistinguono.

Il restauro durato alcuni anni ha portato alla luce un'opera di violenta "ripulitura" ottocentesca che aveva rimosso tutte le parti decorative applicate, con un lavoro di "purificazione" da strutture considerate spurie. Pannelli informativi e testimonianze fotografiche sono nell'ultima sala. In quella centrale, di fronte alle due opere appena citate: Madonna con Bambino in trono, con angeli e dottori della Chiesa (Gallerie dell'Accademia), sontuosa e complessa macchina rappresentativa di Giovanni d'Alemagna ed Antonio Vivarini, del 1446, che ambientano la scena ufficiale, con angeli un po' distratti come chierici di un grande cerimoniale, in un elegante cortile nel verde, la Madonna al centro, ovviamente, ed un Bambino con l'aria un po' da anfitrione, fra S.Gerolamo e S.Gregorio a sinistra; S.Ambrogio e S.Agostino a destra.

Nella stessa sala due magnifiche tempere a pastiglia su tavola, ancora di Giovanni d'Alemaggna ed Antonio Vivarini: Santo Vescovo e S.Nicola, entrambe fra il 1446 ed il 1450, dal Seminario Patriarcale di Venezia, Pinacoteca Manfrediniana.

Continuando nel percorso, una Madonna col Bambino di Michele Giambono, della fine del XV sec. che farebbe pensare a certe figure senesi, dal Museo Correr di Venezia. Interessantissimo il San Crisogono, sempre di Giambono, dalla Chiesa di San Trovaso a Venezia, del 1450 c.a Un cavaliere dalla forte tensione dinamica, un magnifico cavallo possente ed "in movimento" il vento che agita il mantello; alle spalle, una selva ed un sentiero misterioso... assolutamente emozionante!

Concludo con il: Velo della Veronica, meta' XV sec., dalla Galleria Malaspina di Pavia, ancora di Michele Giambono, in cui una vera e propria testa sofferente, prefigurazione di una terribile agonia, compare fra le pieghe della tela,una visione fortemente drammatica, una testa mozza come non era sicuramente difficile vederne all'epoca.

Siccome una visita attenta e' particolarmente consigliata, strumento utilissimo risulta essere il catalogo pubblicato da Marsilio.

emilio campanella


Il 20 ed il 22 Gennaio, al Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara,  e' andata in scena l'opera verdiana, diretta da Donato Renzetti e per la regia di Leo Nucci; una coproduzione  fra la Fondazione Teatri di Piacenza, il Teatro Alighieri di Ravenna, la Fondazione Teatro Comunale di Ferrara.

Un nuovo allestimento di ambientazione settecentesca americana, con belle scene (Carlo Centolavigna) e costumi di gusto (Artemio Cabassi), luci accurate (Claudio Schmid). Intorno alla direzione, un po' muscolare, non so dire se fosse dovuta a scelte del direttore, ad amplificazione della sala, oppure all'energia dell' Orchestra Giovanile Luigi Cherubini.

Comunque, tempi sostenuti, ma drammaturgicamente coerenti. Scene d'assieme ben condotte, gestualita'dei cantanti controllata e motivata, frutto dell'esperienza del regista. Piu' problematica la pagella che riguarda i cantanti, e faccio riferimento alla recita del 22 Gennaio.

Il Riccardo di Ivan Defabiani, ruolo molto impegnativo ed impervio, risultava non piu' che volenteroso e spesso sfocato, molto di spinta e con poco scavo; notevole l'Amelia di Clarissa Costanzo, di bel timbro, bel volume di voce, ampia estensione, autorevolezza, coinvolgimento drammatico e bella presenza, che non guasta certo. Forse, qualche "prestito antico", ma colto e veniale.

Non male Renato ( Ernesto Pelli), credibile ed abbastanza in parte, anche se potrebbe essere maggiormente sfaccettato,  le possibilita' sembrano, comunque esserci; Ekaterina Chekmareva era un' Ulrica sufficientemente tellurica ed "inquietante".

Purtroppo L'Oscar di Natalia Labourdette non aveva che poco spessore, squillo limitato, poca personalita', che per il personaggio ch'e' il perno su cui ruota tutta la vicenda, e' veramente un grosso guaio.

Notevolissimi, Samuel (Mariano Buccino) e Tom (Cristian Saitta), due comprimari con i fiocchi, perfetti nell' ironico commento relativo ad Amelia e Renato; due pericolosi, e sappiamo quanto, pettegoloni, visto che sono due simpatici orsoni, belli grossi e gioviali pur nei loro abiti neri, un po' compagni di merende assassine. Completavano con correttezza il cast: Giovanni Tiralongo (Silvano) e Raffaele Feo (Un giudice/Un servo di Amelia).

Teatro discretamente affollato, con molte tossi di stagione, e non d'imbarazzo, certo; qualche chiacchera di troppo nei palchi, ed alcune intemperanze negli applausi. Spettacolo, comunque apprezzato e riuscito, con alcune notazioni gustose, come il giuramento dei tre a spade incrociate, un po' alla Dumas, l'interessante, trepida curiosita' della fantesca, conscia del dramma che si sta consumando fra i coniugi, ed a conclusione la festa che si svolge in un bel salone neoclassico/palladiano/americano, con danze senza pretese, ma di gusto, un po' quattro salti in famiglia, ma a casa del Conte; una simpatica ballerinetta pazzerella e volutamente pasticciona che danza bene con Oscar.

 Gran mantelli e maschere fra cui si riconoscono due omoni che dissimulano malamente gli abiti neri, e capiamo subito chi sono... tanto, pero' non saranno loro ad uccidere il povero Riccardo, classicamente trafitto e riverso sulle scale della bella scena sghemba ( tutto lo spettacolo e' giocato intelligentemente sulle angolazioni) sostenuto dal solo Oscar che lo abbraccia disperato... lo ha abbracciato molto amichevolmente ed affettuosamente durante tutto lo spettacolo, senza eccessi, ma con la chiarezza che sappiamo esserci nel loro rapporto di complicita' virile.

emilio campanella

 Questo il titolo della mostra che si potra' visitare a Venezia, a Palazzo Loredan, sino al 25 Aprile prossimo.
Il sottotitolo: Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura.

Non e' un caso che l'esposizione sia ospitata al piano nobile del palazzo, una delle sedi dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (fondato da Napoleone) e in quelle sale che ospitano la biblioteca ottocentesca.

La scelta non e' casuale, siccome tutto ruota intorno alla scrittura ed i circa duecento pezzi, in buona parte della collezione che fu di Giancarlo Ligabue (socio dell'Istituto dal 1985) oltreche' provenienti dai Musei Reali di Torino e dal Museo Archeologico Nazionale di Venezia, sono per la maggior parte molto piccoli, sigilli e tavolette, esposti in gruppi di vetrine al centro delle sale, con accuratissima illuminazione ed apporti multimediali sofisticati ed utilissimi.

Un modo per fruire degli oggetti nella maniera migliore e di godere della bellezza degli ambienti. La mostra ed il volume relativo portano il medesimo titolo di una pubblicazione degli anni ottanta del novecento dallo stesso tema, e di cui tutta questa manifestazione e' emanazione ed opera di studiosi legati a quella esperienza. Edito da Giunti in collaborazione con la Fondazione Ligabue, e' molto più di un catalogo, per la ricchezza e l'approfondimento dei testi, la qualita' delle immagini.

Si prende in esame, sulle pagine, come nelle vetrine, un arco di tremila anni di storia.

Sono i germi di quella che e' diventata la nostra cultura, ed e' affascinante, inquietante e doloroso insieme pensare che mentre noi osserviamo ed ammiriamo questi oggetti cosi' lontani nel tempo, che ci comunicano informazioni preziosissime su epoche molto antiche, contemporaneamente, in paesi attualmente inaccessibili agli archeologi, qualcuno fa il possibile per distruggere testimonianze fondamentali del passato di tutti.

Mi sono sempre molto domandato quanto avessero diritto (nessuno!) gli europei: Inglesi, Francesi, Tedeschi, Italiani... di saccheggiare, scavare, razziare opere d'arte straordinarie, reperti favolosi dall'oriente, per farsene vanto nei loro musei, spesso creati appositamente, depauperandone le regioni che li avevano prodotti.

Alla luce dei fatti odierni quelle azioni violente hanno portato ad un salvataggio, una conservazione di cose che sarebbero andate facilmente distrutte. Sappiamo di chi ha dato la vita per non rivelare nascondigli di reperti importantissimi.

Nel bellissimo film Francofonia di Vladimir Sokurov, intorno al Louvre ed al rischio delle sue opere d'arte sotto il nazismo, c'e' una scena attuale silenziosa, magnifica, in cui un signore si aggira per le sale dell'arte assira ed osserva i grandi leoni alati si ferma, affascinato dalla possanza, dalla bellezza. Quelli sono colossi salvati, oggi come oggi.

Come lo e' il bellissimo rilievo del Re Sargon II (Mosul) da Torino, che possiamo vedere sotto i nostri occhi, molto piu' piccolo, certo, ma non meno affascinante nella sua regale fierezza. La terra fra i due fiumi ha visto millenni di avvicendamento di civilta' ed evoluzioni di scritture man mano trasformantisi, cosa che ha creato non pochi problemi di decifrazione, compiuta la quale, o le quali, i testi hanno cominciato a parlare e rivelare i loro segreti.

Le sezioni della mostra prendono in esame vari temi ed argomenti facendo una panoramica ampia ed a modo suo capillare per dare un'idea dei vari argomenti trattati, siano essi ufficiali, sacrali, amministrativi, letterari, medici; molto spesso su supporti in argilla incisa o su piccoli sigilli cilindrici anche in pietre dure molto belle; accanto ad ognuno, lo sviluppo fotografico orizzontale dell'incisione, ed anche l'ingrandimento per poterne cogliere al meglio i particolari. Il percorso si snoda in sei sale che corrispondono alle sezioni della mostra: 1, La Mesopotamia dove e quando,(sala introduttiva che fornisce informazioni generali storico geografiche). 2, Dal disegno al segno. Varieta' di testi, segni, scritture; 3, Il lavoro dello sfragista (l'artigiano incisore, ndr.). I materiali dello sfragista e dello scriba. I sovrani e le loro gesta. 4, L'uomo e gli dËi della Mesopotamia. L'uomo comune: vita, prosperita' , salute. La decifrazione delle scritture in Mesopotamia. 6, Fondazione Giancarlo Ligabue.

E', naturalmente, previsto un nutrito programma didattico per differenti ordini di scuole.

emilio campanella

Dal 27 Gennaio e' stata aperta al pubblico la nuova sede del Museo Civico di Belluno, in Palazzo Fulcis; per l'occasione, fino al 5 Maggio la piccola, importante mostra temporanea: Tiziano, la Madonna Barbarigo dell'Ermitage.

Storia, fortuna, restauro. La vicenda dell'idea di un nuovo museo della citta' data da circa quarantacinque anni.

Il risultato attuale ha alle spalle quattro anni di progetti e di trasformazioni, ed i quarant'anni di storia del Museo, dai tempi di Palazzo del Collegio dei Giuristi, quando si poteva vedere soltanto un venti per cento delle collezioni, ad ora che siamo al triplo, per un lavoro ancora in progress, siccome non tutto l'edificio è ancora stato acquisito.

Di queste problematiche parlo' gia' Antonio Paolucci in un suo articolo del 1969. Si puo' veramente dire che in questi anni, ci sia un ribollire di iniziative, in citta', tutte intorno alle nuove distribuzioni espositive.

Infatti quello che e' stato sede di mostre temporanee per anni, l'infelice Palazzo Crepadona, ospita ora la Biblioteca Civica, e subira' trasformazioni per essere reso piu' adatto anche per la fruizione multimediale.

A Palazzo Bembo verra' allestito il Museo Archeologico, ed al suo terzo piano, uno spazio per esposizioni temporanee; il Museo di Storia Naturale, nell'ex Caserma dei Pompieri... molte trasformazioni, e molti appuntamenti per i prossimi anni.

Tornando a Palazzo Fulcis ed al lavoro di adeguamento che'e' stato fatto, creando un bel museo, ancora da rifinire, ma di grande fascino per l'intelligente connubio fra il suo aspetto originario settecentesco e certi materiali moderni, luminosi e discreti; occorre ricordare come, e sono osservazioni dell'architetto Antonella Milani, soprattutto nella prima fase dei lavori, dal 2007 al 2009, si siano dovuti affrontare problemi di trasformazione e di adattamento, di consolidamento e di rinforzo delle strutture portanti, ma anche notevoli sorprese, come la necropoli longobarda, i ritrovamenti sepolcrali sotto l'androne, al di sotto dell' l'edificio; sepolture nella strada antistante, ed a soli 30-50 c. sotto il livello della sede stradale, appunto.

L'attuale organizzazione del palazzo consta di tre piani, di un piano terra , al cui livello e' il Cortile Lapidario. I primi due piani costituiscono il percorso diviso per epoche e temi stilistici, pittura, scultura, bronzistica, arti applicate, per un numero di ventitre sale. Il terzo piano ospita i tre teleri di Sebastiano Ricci per il Camerino d'Ercole del palazzo: Caduta di Fetonte, Ercole al bivio, Ercole ed Onfale.

Allo stesso terzo piano tra magnifiche travi e spazi adattissimi a suggestivi loft, la sala delle esposizioni temporanee che ospita Tiziano, sino al Primo Maggio prossimo. La Madonna Barbarigo torna a Belluno da dove manca dal 1850, come omaggio del Museo dell'Ermitage, e dopo un accurato restauro.

E' accompagnata dalla Madonna con Bambino e S.Caterina, opera di bottega, proveniente dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze, e da Madonna col Bambino e S.Paolo, da Budapest, Szèpmuvèszeti Muzeum, occasione per una riflessione su un tema molto frequentato stilisticamente ed intorno alle sue variazioni.

Due pubblicazioni edite da Scripta Edizioni accompagnano e la mostra ed il museo.

L'una ha lo stesso titolo dell'esposizione temporanea, l'altra: Musei Civici di Belluno, Palazzo Fulcis, Guida alle collezioni storico-artistiche.

Fa un excursus intorno alla storia del palazzo, il suo restauro, e segue il percorso espositivo con bella impaginazione e buone riproduzioni cromatiche di opere che vanno da Bartolomeo Montagna, a Pomponio Amalteo, da Bernardino Licinio a Palma il Giovane, da Andrea Brustolon ad Ippolito Caffi.

emilio campanella


I Musei di S, Domenico di Forli', propongono la mostra annuale: Art Dèco, Gli anni ruggenti in Italia, presentata il 10 Febbraio, aperta al pubblico il giorno successivo, e che si potra' visitare sino al 18 Giugno.

Sempre sotto l'egida di Antonio Paolucci, un nutrito comitato scientifico e la cura di Valerio Terraroli che alla conferenza stampa ha incensato il proprio lavoro e quello dei colaboratori; lavoro che si e' potuto cogliere solo parzialmente nel suo valore, siccome l'allestimento risultava ancora molto in ritardo, con un dieci per cento scarso dei cartellini, posti accanto alle opere, molte vetrine ancora da montare, "cose" imballate, cristalli appoggiati alle pareti, mobili ancora da allestire... dalla tarda mattinata alle cinque del pomeriggio, ora dell'inaugurazione, suppongo che le maestranze abbiano subito accelerazioni frenetiche per arrivare ad ultimare il loro compito.

Il giudizio non puo', dunque, che essere se non molto limitato, dal punto di vista dell'allestimento, appunto, pur notando le buone idee "scenografiche" come il lungo suggestivo corridoio delle sculture al piano terra, quello delle "veneri" e l'altro degli abiti, gia' presentati con luci ineccepibili.

Si aggiungano le riprese televisive in quasi tutte le sale del primo piano, per cui e' stato tutto un dribblare, saltabeccare fra treppiedi, cavi, riflettori, cercando di vedere quello che si poteva, dell'esposizione, in maniera disordinata, non conseguente, e rapsodica, diciamo cosi'. In questo caso, piu' del solito si fa ricorso al grosso catalogo edito da Silvana con la Fondazione della Cassa dei Risparmi di Forli'.

Il pubblico avra' l'opportunita' di poter visitare la mostra nel giusto ordine, con la giusta tranquillita' per un lavoro cosi' denso di opere, ma si rendera', altresi conto, che questo terzo atto dopo il Liberty ed il Novecento, non ha quell'ampiezza tematica che investiva tutti i punti di vista culturali di un'epoca.

Qui si parla pochissimo di letteratura, poco di architettura, ma molto di decorazione, pittura, scultura, e soprattutto di cio' che va sotto la definizione di arte applicata. E' una scelta. Fuori discussione la qualita' delle opere esposte, molte note e pubblicatissime.

Il curatore ha parlato male della parola glamour e l'ha pronunciata anche troppe volte, forse volendo farle perdere senso, ma allora non abbastanza... basta sostituirla con fascino, incanto, ad esempio, ed il gioco e' fatto , anche per cogliere dei risvolti differenti che investono le scelte curatoriali, appunto, pur proponendo opere che stanno un po' di qua ed un po' di là, come la Donna al caffe' di Antonio Donghi, del 1931, dal Museo Internazionale d'Arte Moderna di Ca' Pesaro a Venezia, bella e misteriosa e' forse de'co, ma soprattutto perfetto esempio di Realismo Magico, cosi' come le diverse opere di Zecchin con il suo decorativismo orientale, sono fra Liberty e Secessione, piuttosto.

Piu' rispondenti ai canoni presi in esame, le molte, magnifiche opere di Gio' Ponti esposte, ma qui siamo alle arti applicate, pur di altissimo livello. Certo ci sono molte fascinose ritratte, come Wally Toscanini di Alberto Martini, e ce ne sono di Bucci, Brunelleschi, Cadorin, Marussig, Bonazza, Oppi. Una mostra sull'edonismo, questo si, e chi più edonista della Coppia verde di Oscar Hermann Lamb del 1933 (Collezione privata)?

Due bellissime donne: amiche, sorelle, amanti? Non importa, stupende, una nuda, in piedi, un poco curva in avanti , lo sguardo verso il basso, i capelli ondulati a ferro, la mano destra sul fianco, le spalle portate un poco avanti, posa tipica delle seducenti di quegli anni.

L'altra, seduta, una sottoveste nera a spallina stretta (un abito da sera molto seduttivo, forse), ci guarda con espressione decisa, il trucco perfetto, i capelli rosso tiziano come la prima, quasi ci sfida.Bellissime, indimenticabili! Poco lontano da loro la citata galleria di abiti magnifici, ornati, sontuosi, applicati.

Questa volta la Ebe canoviana, nella sua sala circolare, e' circondata da meravigliosi gioielli in vetrine, spero, blindate.


emilio campanella

Non c'era ancora mai stata una mostra dedicata a questo pittore, inspiegabilmente, ingiustificatamente trascurato e semidimenticato, seppur presente in collezioni private e pubbliche.

Ora la "sua" Genova, che pure lo maltratto' in vita, gli dedica ben due mostre pregevoli e che meritano un viaggio, oltre una monografia/catalogo di tutto rispetto e la prima in assoluto (SAGEP Editori). Si tratta di: Sinibaldo Scorza, Favole e natura all'alba del Barocco, curata da Anna Orlando, a Palazzo della Meridiana, e di Sinibaldo Scorza (1589-1631) "Avvezzo a maneggiare la penna dissegnando", a Palazzo Rosso, entrambe sino al 4 Giugno e con biglietto congiunto.

Parlero' più diffusamente della prima, in attesa del materiale della seconda, ma esortero' a visitare prima Palazzo della Meridiana, siccome nella mostra di Palazzo Rosso si troveranno disegni preparatori di dipinti appena visti.

Il consiglio e' specialistico di Piero Boccardo, che con Margherita Priarone cura questa esposizione di novanta disegni, di cui cinquantacinque inediti e mai mostrati al pubblico, sul totale del corpus dell'artista, che e' di cinquecento; questo nucleo genovese e' il secondo al mondo per numero, dopo quello del Museo Nazionale di Cracovia.

La mostra di Palazzo della Meridiana, segue quella interessante dello scorso anno: Uomini e Dei, intorno alla pittura genovese del seicento nel collezionismo privato, e che presentava gia' un buon numero di opere di Scorza. La curatrice era la stessa Anna Orlando. Questa esposizione costituisce un salto di qualita' dal punto di vista dell'allestimento: accurato, con le sale che si distinguono per colori di fondo ben scelti, vetrine di opere piccole e tele di grandi dimensioni illuminate con attenta cura.

Le cinque sale non sono grandissime, ma  risultano, in questa occasione particolarmente raccolte ed adatte alla concentrazione quale merita un pittore cosÏ attento al particolare, al dettaglio accuratissimo, ed in questa sua ispirazione d'ascendenza nordica, qui messa in risalto dal confronto con artisti coevi fiamminghi che lavoravano in citta', ma anche altrove durante il suo esilio e dove appunto pote' vedere il loro lavoro. Alle cinque sale, corrispondono altrettante sezioni del percorso, come suggestioni e spunti di riflessione. Scorza, una vita breve, a nostri occhi, spenta da una febbre mortale; di famiglia aristocratica, discendente dei Fieschi di Lavagna, sposo' poi una De Ferrari; originario di Voltaggio, in un entroterra ormai in provincia di Alessandria, arrivo' a Genova e lavoro' nella bottega di Giovanni Maria Paggi, pittore affermato ed anche lui nobile.

Dopo l'apprendistato e le conoscenze nel jet set dell'epoca, gia' apprezzato, anche dal poeta napoletano Giovanni Battista Marino, costrui' un'amicizia fra artisti creando un intreccio fecondo fra arte figurativa e poesia; venne chiamato come pittore di corte dal Duca Carlo Emanuele I di Savoia e fu a Torino per cinque anni. Nel 1625, lo scoppio della guerra fra i Savoia, dalla parte dei Francesi, e la Repubblica di Genova, da quella degli  Spagnoli, porto' ad un'accusa a Scorza, di tradimento, con la conseguente condanna all'esilio che gli dara' l'occasione a Roma di raggiungere la piena maturita' stilistica.

Ritornato e "perdonato" per l'intercessione del Cardinale Desiderio Scaglia, potra' nuovamente stabilirsi a Genova, nel 1627 dove i suoi amici influenti erano ormai scomparsi: nel 1625, tanto Marino, quanto il mecenate Gio. Carlo Doria, mentre il suo maestro Paggi morira' nel Marzo 1627. Ma Scorza e' un pittore ormai molto solidamente apprezzato; gia' dal letterato genovese Gio. Lorenzo Imperiale, da Giordano II Orsini, Duca di Bracciano, dai Dal Pozzo di Roma, e poi dal Duca d'Orle'ans e dalla Regina Cristina di Svezia; a Massa, dal Pricipe Carlo Cybo Malaspina.

Per tutti loro Sinibaldo Scorza rappresentava una persona del proprio ambiente, ed in piu' un colto e raffinato pittore con una mano straordinaria per il disegno. Le cinque sezioni della mostra, precise e ben definite affrontano e percorrono la storia di un artista sensibile al paesaggio, alle suggestioni nordiche che rivisita a piu' riprese dipingendo i noti paesaggi delle sue colline in versione invernale, ghiacciata affettuosamente, stilisticamente settentrionale. Ci sono i temi sacri, ovviamente, ma gli animali sono spesso protagonisti di studi accuratissimi,anche in tele mitologiche intorno a Circe ed Orfeo, rivisitati e mostrati qui accanto ad esempi di altri artisti. A conclusione, il bel presepe di figure ritagliate e dipinte.


emilio campanella

Attesa da fine Novembre scorso, una mostra dedicata a Jeronimus Bosch, nel cinquecentenario della morte, a Venezia, dopo quelle olandese di 's-Hertogenbosch e  Madrid, ha visto la luce, appena fuori tempo massimo, il 18 Febbraio scorso (sara' aperta sino al 4 Giugno) a Palazzo Ducale a Venezia.

Diversa dal previsto per oggettive e comprensibili difficolta' di prestito, e pur motivata da due trittici e quattro tavole, tutti importantissimi, che fanno della citta' lagunare, quella che ha piu' opere al mondo, del maestro fiammingo, dopo Madrid.

Una importante collaborazione fra il Museo Nazionale delle Gallerie dell'Accademia ed i Musei Civici, ha portato a questa esposizione intitolata: Jehronimus Bosch e Venezia, creando un percorso di approfondimento e di studio partendo dalle opere autografe gia' della Collezione Grimani, che nei secoli si sono spostate dalla collezione del Cardinale Domenico Grimani a Palazzo Ducale, per un periodo a Vienna, i due trittici, a Palazzo Grimani, alle Gallerie dell'Accademia, per essere nuovamente, per questo periodo, a Palazzo Ducale. Ambasciatrici, sono state in Olanda ed in Spagna, per poi tornare ed attendere pazientemente questa occasione, motivare e dare un senso profondo l'attuale manifestazione.

La sottile ed intrigante proposta del curatore Bernard Alkema, partito da un'idea del Direttore delle Gallerie dell'Accademia, Paola Marini, e di Gabriella Belli, alla Direzione dei Musei Civici Veneziani, e' quella di prendere le mosse da Bosch e scandagliare cio' che la sua opera ha suscitato in laguna, dopo di lui, nelle collezioni private e negli artisti successivi.

Il catalogo Marsilio, accurato al solito, segue le sezioni della mostra come capitoli, dopo i molti saggi e l'amplissimo apporto iconografico, oltre le stesse opere esposte. Alcune personalita' vengono poste al centro del percorso: la prima e' quella del Cardinale, figlio del doge Antonio Grimani. Uomo colto e curioso; della sua collezione fecero parte con quasi certezza le opere di Bosch che aprono la mostra.

Pitture "strane", anomale nel panorama locale, ma forse proprio per questo, adatte a suscitare dotte disquisizioni. Pare che entrassero a farne parte  dopo la morte dell'artista, ed il restauro ha rivelato dei "pentimenti" non d'autore, ovvero dei rimaneggiamenti atti a rendere le tavole, più gradite ad un cliente cattolico... di queste trasformazioni potrebbe essere responsabile, Daniel Van Bomberghen, commerciante e mercante d'arte fiammingo.

Dopo di lui la vicenda si ramifica intorno al gusto per gli "stregozzi" che contagio' non pochi artisti che fecero della pittura alla Bosch, con un certo successo, e non poca maestria.

Certo e' interessante pensare che cosa, queste visioni potessero suscitare in chi vedeva queste evocazioni di creature fantastiche ed inquietanti, figlie di un passato medioevale ancora dietro l'angolo, di fantasie sfrenate riprese da Pieter  Bruegel il vecchio, con grande maestria nel secolo successivo prima di diventare il piu' grande pittore fiammingo del suo secolo, attento narratore di vizi e vezzi umani, ma senza mai dimenticare anche le visioni inquietanti dell'inizio della sua sfolgorante carriera e mantenendo un occhio preciso entomologico e spesso crudelmente realistico nella sua aura onirica.

Ecco ci siamo, si casca sempre nel punto di vista psicoanalitico, tipico della nostra cultura... peraltro il surrealismo e certe modalita' di alcuni secoli dopo, sono nati proprio nella stessa zona, e non sara' sicuramente casuale.

Intorno a noi, nelle sale degli appartamenti dogali c'e' pittura di alcuni secoli fa, ma cosi forte come impatto emotivo, capace cosi' decisamente di scuoterci, di toccare corde profonde. Tutte le tavole di Bosch, che non ci stanchiamo di guardare, approfondire, per perderci nei paesaggi lontani, nel cogliere particolari surreali, e nel Martirio di Santa Ontcommernis (Wilgefortis,Liberata) 1495-1505 c.a;in quello magnifico e concentrativo dei Tre Santi Eremiti, sempre 1495-1505 c.a, e nei quattro pannelli: Paradiso e Inferno (Visioni dell'Aldila') 1505-1515 c.a, soprattutto quello dallo lo strano tunnel con la luce in fondo, cosi' vicino alle descrizioni di chi e' uscito dal coma... mondi profondi, abissi ed empirei di emozioni... molte opere sono locali, di artisti nordici che lavorarono a Venezia, come Quentin Massys, ed il suo Ecce homo 1529 c.a, di Palazzo Ducale e fino a Joseph Heinz il giovane, che da Anversa si trasferi' a Venezia riprendendo modalita' espressive e tematiche che risalgono a Bosch, ad un certo gusto per l'inquietudine suscitata in chi guarda, ma con modalita' esteriori e che non ebbero poi seguito nei contemporanei.


emilio campanella

Fino al 28 Maggio, a Venezia, il Museo Internazionale d'Arte Moderna di Ca' Pesaro, al secondo piano nobile, ospita un'ampia retrospettiva dedicata a William Merritt Chase (1849-1916), Un pittore fra New York e Venezia.

Ultima tappa dopo Washington e Boston, l'iniziativa e' sostenuta da Terra, Foundation of American Art che ha contribuito anche alla pubblicazione del sontuoso, faraonico catalogo edito in Italia da Magonza Editore, insieme con la Fondazione Musei Civici Veneziani.

Firmano i saggi: Elsa Smithgall, Erica E. Hirshler, Katherine M. Bourguignon, Giovanna Cinex e John Davis; l'introduzione: D.Frederick Baker.

Cinquantacinque opere esposte, divise in otto sezioni, possono dare una discreta idea di un pittore tendenzialmente ecclettico e dalla mano felice, per cosi' dire.

Le sezioni accennate costituiscono, in sostanza, una divisione di temi, per orientare il visitatore nelle belle sale del palazzo che hanno il giusto respito - soffitti alti, grandi, ampie pareti - per ospitare le tele anche di notevole metratura, o gruppi tematici ben accostati, come gli studi d'interno, le vedute lagunari, le città, i paesaggi.

Certe opere possono essere definite un po' di genere, ma e' soprattutto la ritrattistica, direi, la vena piu' riuscita del pittore,  dimostrata anche con autoritratti pregevoli che ci rimandano l'immagine di un simpatico, elegante signore, sicuramente buon docente e charmeur, insegnante per dame annoiate,  pittrici dilettanti ed entusiaste.

Se la ricerca formale corrisponde a quella della sua epoca, senza grandi originalita' peraltro, come un po' al seguito dei piu' grandi innovatori legati allo studio della luce, fra otto cento e novecento, non mancano avventure nella natura morta dalla composizione d'ispirazione barocca, e sempre un occhio deferente nei confronti dei grandi artisti fiamminghi del seicento.

Torno comunque a dire, che, se pur non originalissima, ma con notevole capacita' d'inquadratura e di luce, e' quella del ritratto, la strada percorsa con maggiore felicita'.

Non a caso si e' scelto The Young Orphan, 1884 c.a quello più intenso e convincente, dei molti esposti, a simbolo della mostra, manifesto e copertina del catalogo.


emilio campanella