Hallo Kitty di Enzo Cosimi alla Biennale di Venezia

 

Di: Walter Moser (Orsodorato)


Un atrio gremito di veneziani e non-veneziani sopraggiunti al Teatro delle Tese in una serata preestiva dal cielo plumbeo attraverso un passaggio quasi interminabile e scarsamente illuminato. Impegnati in piacevoli chiacchiere, un accenno di saluto qua e là, mentre alla loro destra, inosservato, si erge minaccioso il sipario d'un grigio tetro, vigilato da una donna guardia giurata.

Dopo venti minuti improvvisamente si apre un varco e sembra che fra poco inizi lo spettacolo di danza organizzato dalla Biennale Hallo Kitty, realizzato da Enzo Cosimi. Seguo l'esempio degli altri pigiando e facendomi pigiare per raggiungere la tribuna. Ma che strano, sia questa sia il palcoscenico sono bui. Infatti un fascio di luce dal diametro limitatissimo colpisce una moto rovesciata col rispettivo conducente capitombolato. Scenario di un incidente stradale, una vittima del sabato sera? No, primo atto di Hallo Kitty decentrato, cioè fuoriscena, accompagnato da una produzione di suoni, anzi da snervanti interferenze sonore. Il motociclista che indossa un massiccio casco nero da guerriero stellare ovviamente a visiera chiusa inizia, telecomandato dai disturbi fonici, a risuscitare da una morte solo apparente muovendo convulsamente gli arti inferiori. Sparpagliati sull'asfalto giornali, giornaletti. Il voyeurismo dei visitatori imposto dal regista finisce qua poiché i faretti illuminano il palco. Era ora!

Quattro finte geishe ispirate presumibilmente alle Belle Addormentate di Yasunari Kawabata giacciono per terra su tappetini color sangue di bue disposti assimetricamente, su uno schermo gigantesco un'immagine quasi speculare a volo di uccello di un'altra geisha il cui kimono slacciato fa intravedere un corpo di un biancore marmoreo, oggetto di approcci e palpeggiamenti da parte di teste e mani maschili. Stessa colonna sonora, stesse convulsioni delle quattro protagoniste nel momento in cui il motociclista raggiunge la scena e si denuda apparendo a mio e forse non solo mio stupore non un ragazzo, ma un essere dal sesso ambiguo, dai movimenti inequivocabilmente maschili, ma dal corpo glabro, privo di rotondità rivelatrici, il petto compresso in una corazza di giornali fissati da un largo elastico. Metafora per il sesso negato, per l'autolesionismo? Tante domande alle quali non sembro trovare risposte esplicite neanche nel terzo atto, lo chiamerei la danza delle allegre lavandaie.

Le protagoniste nel frattempo trasformatesi in procaci ninfette avvolte in négligé dal velo diafano merlettato si abbandonano in uno spingi-spingi, secondo me e anche testimoniato da ben appariscenti lividi (reali!), probabilmente riportati nelle prove, non indolore, in acrobazie kung-fu, in performance ballettistico-gesticolanti tipo Cicale Cicale di Heather Parisi e tutto ciò in modo frenetico e delirante tra tinozze di plastica stile inizio anni Settanta. Lolite ovvero kokeshi, fanciulle cartoon manga, che si esibiscono in pose lascive davanti al pubblico o che si sfogano in spericolanti giochi acquatici a mo' di spruzzi e zampilli (grazie al Cielo che gli impianti elettrici del teatro sono tutti protetti con tele di plastica). Alcune si contorcono a furia di rientrare nelle tinozze e ohimé rimangano incastrate. Un dimenarsi di gambe bambinesco finalizzato a liberare non loro, ma in linea di massima qualche sorrisetto d'imbarazzo presso il pubblico (nel senso di "poveri noi che dobbiamo sciropparci una simile citrulleria").

Quarto atto un quarto d'ora prima del respiro deliberatorio, il climax dell'oscenità. Mentre sullo schermo viene proiettato un video apparentemente amatoriale riprendendo una delle protagoniste vestita da geisha (indossa calzini neri - sic!) in gita scolastica a Roma, questa stessa si siede all'estremità del palcoscenico, svuota la sua borsa sistemando da venditrice ambulante il contenuto per terra: fermacapelli, rossetto, kajal ed altri oggetti da beauty-case, giocattoli elettronici, pokemon, comunque un'accozzaglia impressionante di kitsch Made in China. Inizia ad acconciarsi i capelli, a truccarsi o meglio a deturparsi volutamente il viso. Altra metafora per il non-rispetto del proprio corpo, per una sua punizione? Presumibilmente, perché la protagonista, ora derubata da ogni ritegno accenna a ficcarsi una forbice da chirurgo direttamente nelle budella. Con questo strumento attaccato all'elastico della mutandina si alza lasciandosi andare ad un agitarsi da forsennata. Fra meno di un minuto è asserragliata dalle altre quattro pazze, ormai per i loro movimenti e il travestimento all'apice della volgarità, che la bersagliano squittendo di giocattoli usa-e-getta. Critica velata contro l'umanità mercificata? Basta con le interpretazioni, le metafore e la ricerca di eventuali significati profondi poiché termina qua la provocazione cosimiana. Fuori ci aspetta una piovosa notte veneziana e chi lo sa mai, forse anche la strizzatina d'occhio di qualche turista nipponico.

Orsodorato Walter Moser



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