MATMOS - ZEENA PARKINS

10 SETTEMBRE 2006

TEATRO GOLDONI VENEZIA ORE 21

Recensione di Emiliano

 

Evento conclusivo di una lunga serie di appuntamenti, denominata 'Estate in campo' , questa serata organizzata dall'Associazione Culturale Vortice ha riportato a Venezia due importantissimi nomi della musica elettronica d'avanguardia, il duo californiano Matmos (Drew Daniel e Martin C. Smith) e l'arpista Zeena Parkins, gia' collaboratrice di John Zorn e, assieme ai suoi due compagni di serata, presente in modo piuttosto massiccio nell'album 'Vespertine' di Bjork.

La scelta del teatro Goldoni e' stata sicuramente dettata dal fatto che i Matmos richiamano un grande afflusso di pubblico (la loro precedente volta a Venezia li ha visti 'bissare' nella stessa serata la loro performance per la presentazione dell'album 'The Civil War' per far fronte ad una quantita' di presenze assai maggiore rispetto allo spazio concesso dal piccolo ma bellissimo Teatro delle Fondamenta Nuove); non so quante altre volte il Teatro Goldoni abbia sentito (e la sua architettura vibrato per) suoni come quelli sentiti durante il concerto: in ogni caso, il connubio tra un luogo classico e la sperimentazione musicale e' riuscito alla perfezione, ad iniziare proprio dall'atmosfera che si e' creata.

Quando arrivo il teatro e' ancora vuoto, prendo il mio posto ed inizio ad osservare il palco. Qualche sgabello rosso, un tavolo di legno, due console in metallo su cui poggiano dei laptop (mac per Drew e Martin, pc per il manovratore dei video - che suonera' pure la chitarra e i bonghi, all'occorrenza). Su tutto, alla mia destra, spicca l'arpa della Parkins, un triangolo atavico da cui possono pero' uscire suoni incredibili, un oggetto antico ma al contempo fantascientifico, capace di suscitare, solo vedendolo, la stessa sensazione di orrore e inquietudine provocata dalla comparsa del Monolite nel film '2001 - Odissea nello spazio'. Legno, metallo, cavi di ogni genere: questo e' cio' che si vede; solo ad un attento esame del fondo del palcoscenico mi rendo conto che c'e' pure un pianoforte. Questo e' quello che suoneranno stasera, mi dico: l'impressione e' che sara' uno spettacolo astratto e fortemente concettuale, quasi un'esposizione temporanea di architettura sonora - e siamo proprio al primo giorno della Biennale d'Architettura, che coincidenza...

Pochi minuti di attesa dopo le 21, l'orario previsto per l'inizio, si abbassano le luci. Entra la Parkins, una donna un po' cavallona, bionda e bella, in pantaloni neri e maglia svolazzante bianca (presumo una delle sue passioni, visto che le altre volte in cui l'ho vista dal vivo indossava abiti simili). Presenta tre pezzi molto imponenti per la durata (dieci minuti circa ciascuno) e per la struttura. Con un sapiente gioco di campionatori e sequencer azionati tramite dei pulsanti premuti col piede, la Parkins crea dei loop che si sovrappongono a tempi regolari ma sfasati (come in un canone); la cosa spettacolare dell'esibizione dell'arpista e' la fisicita' che emana, il modo che ha di manovrare il suo strumento, quasi di violentarlo, sovrastandolo e abbracciandolo col corpo. L'arpa viene suonata in modo tradizionale oppure viene grattata sui bordi con una spazzola, le corde sfregate con altre corde oppure battute con dei bastoncini di metallo; i suoni poi sono effettati e messi in loop. Il risultato e' una sinfonia di suoni melodiosi oppure distorti, e le composizioni (che la maggioranza del pubblico, ma non il sottoscritto, ha trovato forse un po' stucchevoli) si librano sapientemente tra due estremi, la melodia (quasi il canto degli usignoli) e il noise piu' estremo. La performance, certo non di facile approccio, e' stata comunque, a mio avviso, coinvolgente sia per la qualita' delle composizioni, sia proprio per la presenza scenica della Parkins e, ancor piu', della sua arpa.

L'esibizione della bionda Zeena dura una mezz'ora: segue una breve pausa, per sgranchirsi le gambe, poi le luci si riabbassano. Entra un ragazzone alto, si avvicina al pc e fa partire un video, poco dopo entra una donna mora, con i capelli a caschetto, che si avvicina all'arpa, prende il microfono ed inizia a parlare (tutto cio' mentre sullo schermo vengono visualizzate le peripezie di una...milza -almeno credo- maltrattata da due mani). Quello che declama la signora e' lo 'S.C.U.M. Manifesto' ('Manifesto per l'eliminazione del maschio') di Valerie Solanas; sulla voce arrabbiata da Demostene delle femministe, entrano Drew e Martin, come al solito eleganti (Martin con la solita camicia bianca e la cravatta, Drew con un look piu' da balera del sabato sera di paese, in scuro): si piazzano davanti ai loro mac e fanno partire la musica, una ranza tecno sostenuta e piuttosto violenta. La voce della signora che declama va e viene, ne viene modificato il pitch e alla fine sembra l'orazione delirante di un diavolo da b-movie, o di un drogato di elio. Finito il pezzo, i Matmos, simpatici come al solito, salutano e si presentano e...solo quando ne pronunciano il nome, mi rendo conto che la mora indemoniata e' la Zeena che ci aveva allietati nella prima parte dello spettacolo. Una trasformazione incredibile: una parrucca, due mosse folli - aggressive e non e' stato possibile riconoscerla, finche' non e' stata presentata.

Il concerto prosegue con la presentazione del nuovo lavoro di Drew e Martin, 'The rose has teeth in the mouth of the beast' (Matador, 2006), disco atipico rispetto alla loro produzione perche' piu' giocato sulla forma canzone, molto piu' melodico e basato sul campionamento, che sui frammenti glitch; il tema del disco e' il tributo ad alcuni personaggi gay, uomini e donne: Lerry Levan, leggendario dj, la sovracitata Valerie Solanas, la scrittrice Patricia Highsmith, il filosofo Ludwig Wittgenstein, il re Ludovico II di Baviera, gli outsider ('scrittori' mi sembra riduttivo) Yukio Mishima e William S. Burroghs. Una specie di 'compilation gay', con tanti stili quanti sono gli universi gay: disco, jazz, avanguardia, caos. Tante parti orchestrate, voci, ma anche quei suoni tanto cari ai Matmos, le registrazioni particolari e improbabili (lumache che strisciano, il rumore di una panca in una dark room durante il Bear Festival di San Francisco...). Tra i momenti piu' emozionanti, la lunga composizione (un rag) per Burroghs, con tanto di pianoforte (suonato non solo pestando sui tasti), corni, bonghi, mentre sullo sfondo il video mostrava una specie macchina di Turing che si ammorbidiva, scene da cowboy e sparatorie, allucinazioni di vario genere (riferimenti piu' che espliciti all'opera e alla vita del grande autore americano); di grande effetto anche il pezzo per Larry Levan, un brano perfetto per un ipotetico 'Alternative Confessions' di Madonna, dance intelligente ma non intellettualistica, di quelle che devi per forza battere i piedi seguendo il ritmo (anche qui, un video psichedelico anni ottanta, con paillettes versate su un giradischi in movimento, e che girando si trasformano in una strobo...e che tagliate con una lametta rimandano al 'vizietto' di Levan, la droga).

L'esecuzione dura un'ora: i Matmos divertono e osano con i suoni, vengono richiamati a gran voce per un bis; non e' stato solo un concerto di elettronica, e' stato un concerto molto caldo, dove gli strumenti sono stati suonati, pestati, amati e maltrattati. Uno show ad alto concentrato di fisicita', da far tremare il ventre (e' vero, i bassi erano potentissimi), da far muovere testa braccia gambe...e cuore.

Post-scriptum.

Avevo portato con me la macchina digitale, ma avevo poca batteria e nessun ricambio (sgagio, come se dixi in venexian!). Qualche foto l'ho fatta, ma nessuna di Drew e Martin: l'ultimo, flebile scatto l'ho riservato ad una maglietta dei Joy Division presente in sala...e al suo magnifico, tenero, grosso contenuto.

Emiliano


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